La pandemia aveva provocato la perdita di 376mila posti. Ora le occupate tornano ai livelli precrisi ma è forte il divario territoriale
L’occupazione femminile dopo il Covid è in ripresa ma non ha eliminato i forti divari territoriali tra Nord-Centro da un lato, Sud e Isole dall’altro. Né la polarizzazione degli impieghi femminili su settori “tradizionali”: le donne continuano a essere, in prevalenza, insegnanti, medici e operatrici della sanità, impiegate, commesse.
I dati Istat relativi ai primi nove mesi del 2022, rivelano che dopo la perdita di 376mila posti di lavoro femminili nel 2020 per effetto della pandemia, il numero di donne al lavoro è tornato ai livelli precrisi. Anzi, se si estende lo sguardo ai dati provvisori di gennaio 2023 appena diffusi dall’Istat, le donne occupate sono 9,87 milioni, quindi più di quelle occupate nel 2019 (9,7 milioni).
Il tasso di occupazione femminile medio (sempre in riferimento ai primi nove mesi del 2022) è del 50,8%: lavora una donna su due. Mentre raggiunge il 51,9% in base ai dati provvisori di gennaio.
Disparità Nord-Sud
Le Regioni del Nord e del Centro però si piazzano tutte sopra questo livello, con la punta di eccellenza del Trentino Alto Adige (66,3%), e un tasso medio intorno al 60% in Emilia Romagna, Toscana, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia (si veda la cartina in pagina). Si piazzano sotto la media, invece, le Regioni meridionali e le Isole, con la maglia nera della Sicilia (30,3%) e della Campania (30,4%).
Al di là della quota di lavoro irregolare presente in tutte le Regioni e quindi non registrato dalle statistiche, resta sicuramente la fotografia di un’Italia con scenari territoriali molto distanti tra loro.
Le elaborazioni dei dati Istat curate per Il Sole 24 Ore del Lunedì dalla Fondazione Leone Moressa aiutano a far luce anche sulle professioni prevalenti: sono donne il 64,4% degli impiegati, il 58% degli addetti alla vendita e ai servizi alla persona, il 54,8% di coloro che svolgono professioni intellettuali (tra questi, le insegnanti).
Sono invece donne solo un quarto dei dirigenti e degli imprenditori e il 39,7% di coloro che svolgono professioni tecniche (peraltro, in quest’ultimo ambito, il numero delle occupate donne è in calo del 2% nel 2022 rispetto all’anno precedente).
Il 69,4% delle lavoratrici ha un contratto a tempo indeterminato, mentre il 14,5% ha un impiego a tempo determinato (contro l’11,7% dei maschi).
Il divario retributivo con gli uomini
«Le differenze nel tasso di occupazione femminile tra Nord e Sud – spiega il presidente del Cnel Tiziano Treu – rispecchiano i divari economici fra le aree del Paese. Le azioni strutturali che sono state avviate, come l’istituzione dell’assegno unico per i figli e il piano per asili nido e scuole dell’infanzia previsto dal Pnrr potranno avere un impatto positivo in futuro. Un’altra forte criticità – aggiunge Treu – è il divario retributivo fra uomini e donne, sia sul piano del salario orario, sia, in modo più rilevante, se si guarda alla disponibilità di reddito annuo di lavoratori e lavoratrici».
A penalizzare le retribuzioni femminili, oltre alla minore presenza nei ruoli dirigenziali, c’è una maggiore incidenza del lavoro part-time (svolto dal 31% delle donne, contro il 9% degli uomini) e di impieghi intermittenti o discontinui nel tempo, dovuti spesso alla necessità di conciliare il lavoro fuori casa con l’accudimento della famiglia.