In concorso è stato presentato il nuovo lungometraggio di Christian Petzold, uno dei registi tedeschi più importanti del cinema contemporaneo
Il film tedesco più atteso della Berlinale: stiamo parlando di “Afire”, nuova pellicola di Christian Petzold, uno dei beniamini del festival e tra i più importanti registi del cinema europeo degli ultimi anni.
Dopo diversi lavori meno noti, Petzold è diventato un autore di spicco con film che interrogavano l’identità tedesca e la sua storia – come “La scelta di Barbara” del 2012 e “Il segreto del suo volto” del 2014 – fino a raggiungere l’apice della sua poetica con “La donna dello scrittore”, pellicola del 2018 che riflette in maniera mirabile e originale sul tema del tempo e della memoria.
Se il suo film precedente, “Undine” del 2020, ragionava attorno all’elemento dell’acqua, ora è il fuoco a dominare in questo suo nuovo lungometraggio, presentato all’interno del concorso principale.
Al centro di questa pellicola ci sono quattro personaggi che passeranno alcuni giorni insieme in una casa vicino al Mar Baltico. Tra questi, uno scrittore che sta cercando in quel luogo la giusta ispirazione per sistemare il suo ultimo romanzo: è infatti imminente una visita del suo editore e il manoscritto è ancora lontano dall’essere pronto.Mentre si trovano in questa situazione, la foresta inizia a bruciare vittima degli incendi.Curioso che il titolo originale tedesco di questo film sia “Roter Himmel”, un cielo rosso che è quello che i quattro personaggi si troveranno di fronte: inizialmente la minaccia è lontana e non sembra interessarli più di tanto, ma poi si trasformerà invece in qualcosa che li toccherà direttamente.
Un netto cambio di registro
Se la prima parte può apparire come una sorta di commedia rilassante e un po’ annoiata, nella seconda c’è un netto cambio di registro che fa sfociare questa pellicola in un prodotto decisamente inquietante, dove la presenza del fuoco diventa anche il motore dei cambiamenti psicologi all’interno dei vari personaggi e delle rispettive relazioni.Dalla leggerezza alla tragedia il passo è breve, sembra suggerirci Petzold, in questo film capace di far riflettere e caratterizzato da numerose sequenze degne di nota, ma anche di un simbolismo che verso la conclusione diventa eccessivamente forzato e un po’ didascalico.Il regista ha fatto di meglio in passato, anche se alcuni dialoghi e diverse immagini di “Afire” sono tra le cose più interessanti e incisive viste nel concorso del Festival di Berlino di quest’anno.
20.000 especies de abejas
Tra i titoli della competizione che hanno fatto maggiormente parlare di sé c’è anche “20.000 especies de abejas”, opera prima della regista basca Estibaliz Urresola Solaguren.Protagonista è Aitor che, a otto anni, sta cercando di capire di più se stesso e la sua identità. Durante un’estate esprimerà il suo disagio esistenziale e inizierà ad affrontare il complicato rapporto con la figura materna.Classico racconto di formazione, questo esordio dimostra il buon tocco e la sensibilità della sua autrice, ma rischia di ricordare troppo da vicino altre pellicole che hanno trattato temi simili (si pensi all’ottimo “Tomboy” di Céline Sciamma, giusto per citarne uno). Troppo calcate, inoltre, le allegorie rispetto alle api del titolo, mentre è funzionale la descrizione del rapporto tra Aitor e le persone che lo circondano, tutte scritte con buona cura in fase di sceneggiatura. Il risultato è un film complesso e interessante, che non riesce però ad aggiungere qualcosa di significativo a un argomento così importante.